L'ombra dell'anello
(racconto n. 1)
Riuscì a trattenersi finché l’altro non se ne fu andato, a testa bassa, come il cane che era. Dopo, improvvisa, la diga si ruppe. Fu invaso da una rabbia violentissima, travolgente, inarrestabile. Udiva solo i tonfi dei pugni sul corpo della donna, che a malapena, adesso, ricordava chi fosse.
Poi, senza neppure sapere come l’avesse preso, forse da un cassetto di cucina, forse dalla tasca della giacca, si ritrovò in mano un coltello.
Non udì le urla, né le preghiere; la sua attenzione era tutta concentrata sulla traiettoria della lama che squarciò la gola della donna, sul caldo zampillo di sangue che gli investì la mano, che schizzò sul vestito, che tinse le tende.
Il cadavere cadde ai piedi del letto, inzuppando di rosso il lenzuolo rovesciato sul pavimento. L’uomo si chinò e strappò da una mano ancora calda la fede nuziale, che gettò via con rabbia.
Si aggirò per la stanza come un leone in gabbia, ancora sconvolto da quella tempesta di sentimenti. Osservava ciò che gli stava intorno come se avesse voluto stritolarlo con la sola forza dello sguardo, tanta era l’energia, la rabbia e la furia che gli ribollivano nel sangue. Ad un tratto, con un gesto fulmineo, afferrò il quadro poggiato su uno dei comodini e lo scagliò a terra, rompendone il vetro. Lo calpestò più e più volte, finché la fotografia non si ridusse a brandelli irriconoscibili, il vetro a frammenti impalpabili. La stessa sorte toccò agli altri quadri, distrutti con metodica e spietata sistematicità.
Dopo quell’esplosione di violenza e di collera, l’adrenalina richiese il suo tributo, e la stanchezza, improvvisa, si fece sentire. L’uomo sedette, quasi cadde sul letto, fissando, senza vederla, la devastazione intorno a sé, illuminata dalla luce di metà pomeriggio che filtrava fra le tende accostate. Pian piano, senza che ne avesse piena coscienza, il suo corpo si reclinò all’indietro, ed egli cadde in un sonno profondo e agitato.
Quando si svegliò, molto più tardi, doveva essere già quasi il crepuscolo; un obliquo raggio di sole, in cui danzavano minuscoli granelli di polvere, illuminava ancora la stanza, scintillando e rifrangendosi sui frammenti di vetro sparsi a terra.
Poi, per qualche istante, un’ombra lo cancellò. Quindi, improvvisa e inspiegabile com’era venuta, scomparve, e la luce invase di nuovo la stanza.
Incuriosito dal fenomeno, l’uomo guardò più attentamente, e un riflesso dorato attrasse il suo sguardo: si trattava della fede nuziale, a terra in un angolo della camera. Gli occhi gli corsero istintivamente al proprio anello, ma la vista delle mani, ancora incrostate di sangue rappreso, gli fece correre un freddo brivido lungo la spina dorsale.
Si alzò di scatto dal letto, quindi, evitando di guardare il corpo che ancora giaceva sul pavimento, si diresse barcollando verso il bagno. Qui s’insaponò in fretta le mani, quasi con furia, più e più volte, e le mise sotto il getto d’acqua del lavandino, aperto al massimo. Ripeté l’operazione due volte, poi di nuovo, e ancora.
E ancora.
Infine, con la pelle delle dita ormai stropicciata, afferrò un asciugamano da uno dei sostegni fissati al muro, e si asciugò. L’acqua, assorbita, lasciò degli aloni umidi sul tessuto sottile.
Poi, sotto gli occhi sgranati dell’uomo, vi apparvero, inequivocabili, delle macchie di sangue.
Lasciato cadere a terra l’asciugamano, le mani tremanti, la mente in subbuglio, l’uomo fuggì dalla stanza, camminò, corse per la casa, infranse dei vasi, rovesciò un tavolinetto, quasi inciampò sul telefono caduto; chiuse ogni porta dietro di sé, esplorò ogni angolo con sguardo febbrile, mentre la ragione andava in pezzi, e la sua mente vacillava sull’orlo della follia.
Confusamente, si rendeva conto di correre in cerchio… e ne ebbe conferma quando, infine, si ritrovò nel breve corridoio che portava alla stanza da letto.
Mentre si avvicinava, un’ombra, al limite del suo campo visivo, si mosse nella camera, quindi ne oscurò la soglia.
Un’ombra stranamente densa, che risaltava contro la debole luce dietro di sé, rimanendo compatta e impenetrabile.
L’uomo avanzò ancora, a passo lento e sempre più malfermo, finché non l’ebbe proprio davanti.
La fissò a lungo, tentando di dare un senso a ciò che vedeva. Ne osservò i tratti e, mentre la sua mente, stretta in un gelido terrore, precipitava nel baratro, continuò a guardare.
Continuò a guardare, affascinato, quel che a una prima occhiata era sembrata solo un’ombra.
L’ombra di sua moglie.
Con un grido, l’uomo barcollò in avanti, le braccia tese, tentando di allontanare quel che la sua mente gli mostrava. Invano.
L’ombra si limitò a passargli attraverso.
Il corpo cadde con un tonfo sordo, pesante, e giacque immobile vicino al cadavere della donna.
Polvere e frammenti di vetro, sollevati in aria, ricaddero. L’oscurità, a poco a poco, avvolse la stanza. Il silenzio calò su ogni cosa.
Fu la sorella dell’uomo a chiamare la polizia, la mattina del giorno seguente. Aveva telefonato a casa della coppia, la sera prima, per invitare entrambi a una cena, ma aveva trovato occupato. Aveva insistito, ma il segnale era rimasto immutato per ore. Si era recata all’abitazione, trovandola buia e in apparenza deserta. Aveva chiesto ai vicini e ad amici, ma nessuno era stato in grado di dirle nulla. Alla fine, preoccupata che la già precaria salute del fratello, che soffriva di nervi, fosse sfociata in conseguenze spiacevoli, non le era rimasto che chiamare le forze dell’ordine.
La polizia, ricevuti i referti del medico legale e ascoltata la testimonianza dell’amante, archiviò il caso di Elizabeth e John Richardson come omicidio passionale, seguito dalla morte dell’assassino per infarto.
O, almeno, questa fu la versione ufficiale, per certi aspetti incredibile, ma mai quanto l’attenta lettura del referto dell’autopsia effettuata su John Richardson.
Un referto apparentemente normale, con una causa di morte in sé perfettamente normale. Ma nessuno sarebbe riuscito a considerare normale quanto scritto in una nota, a caratteri minuscoli, posta in calce alla descrizione dello stato del corpo, che solo due persone, il medico che eseguì l’autopsia e il capo della polizia, ebbero mai occasione di leggere.
“… l’organo non sembra essere mai stato utilizzato. Non esiste spiegazione a questo in medicina, non può esistere, e tuttavia né negli atri, né nei ventricoli rimane una sola, minima traccia che vi sia circolato del sangue. Inoltre… ma non è assolutamente possibile… per quanto il cadavere non presenti segni di sutura di alcun genere, al centro del cuore, incastonata esattamente a metà fra i setti interatriale e interventricolare, è stata trovata… una fede, una fede nuziale”.
Postilla:
Se la memoria non mi tradisce, iniziai questo racconto nel lontano 2009, terminandolo soltanto il 14 gennaio 2012 (all’una di notte, fra l’altro). Il fattore scatenante fu, e di questo sono sicuro, la lettura in traduzione del ritratto di Catilina, un passo del Bellum Catilinae di Sallustio (un passo spettacolare, dovrei aggiungere, anche se l’intera opera, molto breve, ne presenta altri molto notevoli). Mi colpì a tal punto lo stile, la rapidità delle frasi, il ritmo incalzante, che decisi che, per quanto male, dovevo tentare di scrivere qualcosa allo stesso modo. E’ probabile che, a causa dei tempi diversi di stesura, l’effetto sia andato un po’ perso, se mai c’è stato… ma non mi sembra un tentativo da buttare.
Non ricordo con esattezza da dove presi invece lo spunto per la trama, che avevo già deciso all’epoca, ben prima di scrivere e concludere la seconda metà della storia, ma immagino di aver finito di leggere proprio in quel periodo una raccolta di racconti del grande, oscuro e intramontabile Edgar Allan Poe. Come non farsi influenzare? 🙂
Detto ciò, rileggendo ora il prodotto di sì nobili origini, non lo trovo poi così apprezzabile come pensavo (“Show, don’t tell”? Anche no, probabilmente). Confesso, tuttavia, che mentre scrivevo l’evento culminante, forse per l’ora, forse per la partecipazione… ebbene sì, avevo paura! 😳
Output by Album at 01:00:42 | 19:37:29