Italo Calvino - Le città invisibili
Avevo letto vari libri di Calvino, anni fa, inclusi i particolarissimi “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fatto di continui inizi, e “Il castello dei destini incrociati”, costruito invece giocando (letteralmente) coi tarocchi.
Eppure, come dovevo aspettarmi, “Le città invisibili” è qualcosa di ancora più strano e diverso.
Non si tratta di una storia vera e propria: esiste, certo, una cornice che fa da collante, in cui Marco Polo e Kublai Kan discutono di città possibili, o immaginate, o di come, da un modello generale con elementi comuni (i più realistici secondo l’imperatore, i più improbabili secondo il mercante veneziano), di come da un simile modello, dicevo, si possano derivare per addizione o sottrazione tutte le possibili città che si susseguono nel tempo. Ma tutto si confonde in un’atmosfera da sogno, nello sfumare delle possibilità espressive, prima dei simboli, poi delle parole e dei gesti, nel meditare silenzioso dei due che fumano lunghe pipe d’ambra, e immaginano di domandare all’altro, di rispondere, o di sentirsi rispondere o chiedere o venire interrotti… o ancora di essere loro stessi immaginati (quel che, in effetti, succede nella realtà del lettore). E d’altronde, è chiaro come la cornice stessa sia fuori dal tempo, o meglio vi si muova all’interno, avanti e indietro, con sprazzi di futuro che fanno capolino qua e là…
"Kublai domanda a Marco: - Quando ritornerai al Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me?
- Io parlo parlo, - dice Marco, - ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d'avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio."
…quando non proprio di modernità:
"La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove."
Questo è un incipit delle molte città descritte, fra un dialogo e l’altro dell’imperatore e del suo ambasciatore straniero. Si tratta di piccoli quadretti, visioni a volte poetiche e sorprendenti, a volte drammatiche, opprimenti, quasi da civiltà allo sbando (ricordate “Putrìo, putrìo” in “Noi marziani” di Philip K. Dick?). E così leggiamo di una città semi-itinerante, la cui metà stabile non è quella che vi aspettereste, di un’altra definita da simboli e rimandi, di una che si oppone a due diversi “deserti”, e da essi è definita agli occhi del marinaio e del cammelliere lontani; e ancora una città che si eleva dal terreno su alte palafitte, con case di “bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, […], collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili”; e un’altra costruita su, o forse da, una città speculare sotterranea, in continuo divenire, abitata dai morti; oppure completamente rispecchiata in ogni suo frontone, stanza e azione nel lago al suo centro, o ancora ispirata a un modello celeste contrapposto a uno sotterraneo, di cui però si travisano le vere essenze, lasciando un “solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea”… atto che non vi svelerò, sappiate soltanto che ho applaudito. 😃
Non pensiate che vi abbia svelato tutto di questo libro. Anzi, scordatevelo. Anche se avessi provato a raccontarvi di ogni singola città, il piacere della prosa di Calvino resterebbe quasi immutato. Va letto, una visione o due alla volta, eventualmente, ma soprattutto va riletto, meglio ancora se aprendolo a caso e trovandosi davanti a una città dimenticata, che stavolta potrebbe impressionarvi. Lo dico dopo averlo iniziato, mollato per studio, quindi ripreso dal principio e finito in due giorni, perciò fidatevi. 🙂
Ah, e se, legittimamente, pensate che sia tutto un gran volo pindarico psichedelico… una curiosità: mentre scrivevo questa recensione, mi hanno raccontato del film “Si accettano miracoli”, in cui, a quanto ho capito, la Sant’Agata dei Goti in cui è stato girato non solo ha altro nome, ma è ribaltata, il paese alto è quello basso, e viceversa. Ecco, pensate solo a quante città composte di frammenti di altre città, esistenti o inventate sul posto, avete visto, consapevolmente o meno, nei film…
E poi ditemi. 😜
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